Focus del mese
Federico Faruffini, “pittore tra Romanticismo e Realismo” come ebbe a definirlo Anna Finocchi nella sua principale monografia, firmò nel 1867 la Scena d’inquisizione donata al Museo nel 2006 da Angelina Ermolli Marzetti.
È un’opera che, per le dimensioni ridotte e il carattere corsivo segnato da rapide pennellate, può essere accostata ai numerosi bozzetti storici eseguiti da Faruffini tra la fine del 1865 e il 1868. Questo periodo corrisponde a una fase particolarmente inquieta dell’esistenza del pittore, trascorsa con frequenti spostamenti tra Sesto S. Giovanni, Pavia, Milano, Roma, Parigi e precocemente terminata con il suo suicidio a Perugia nel dicembre del 1869.
La tavola viene presentata genericamente come “soggetto storico piacentino o veneziano” nel foglio che al momento dell’acquisizione era fissato sul retro della cornice, a firma dell’antiquario romano Augusto Jandolo che nel 1927 dichiarava di averla acquistata “insieme a tutte le altre opere sue (ndr. di Faruffini) dalla vedova dell’Ing. Ugo Bizzarri ultima detentrice delle opere del grande pittore”.
La mancanza di un titolo preciso, che rende difficile ricostruire il percorso dell’opera sul mercato antiquario, non impedisce di constatarne il valore pittorico.
In un Medioevo di maniera, una folla si stringe intorno a una figura vestita di nero e incappucciata: ci sono molti soldati, le cui lance si incrociano sopra alle teste, ma anche alcune figure femminili, tra le quali si distinguono una donna addolorata che porta le mani al petto e un’altra sulla destra che sembra trattenere un uomo pronto a sguainare la spada. Solo un triangolo di cielo azzurro si intravede tra gli alti palazzi che chiudono la scena. Le ombre allungate che i personaggi proiettano a terra aiutano a ritmare la profondità dello spazio e accrescono l’inquietudine della scena concitata.
Il colore, che raggiunge un discreto spessore soprattutto in corrispondenza di rialzi improvvisi di luce, è vibrante.
Questa scelta innovatrice di Faruffini per un linguaggio antiaccademico, fondato non sul disegno, ma sul colore e sulla luce, nutrì in modo fondamentale l’esperienza originale dei pittori scapigliati lombardi tra gli anni ’70 e ’80 dell’Ottocento.
Laura Marazzi
gennaio 2014